TESTI CRITICI

Testi Critici su Francesco Santosuosso

GOFFREDO FOFI

ALESSANDRO RIVA                                                                                                                

ROBERT GLIGOROV 

SERGIO VANNI

ADRIANO MEI GENTILUCCI –

MARCO MENEGUZZO

GERLINDE SCHMIDT

MEMO GOFFI 

ALICE MORETTI 

MASSIMO MORETTI

GOFFREDO FOFI   

presentazione nel catalogo

Santosuosso –  Overground art 

Castelvecchi edizioni 1998

 Dei vari modi che Santosuosso ha di raccontare (e raccontarsi) per immagini, colpisce l’ ”estremismo” delle scelte principali: il ritratto – che non è necessariamente di persona vera, che appare motivato da una sorta di desiderio e ideale di bellezza muliebre – e la costruzione geometrica, da metropolis disabitata e grandiosa, bizzarra ma fredda, altrettanto “immaginata” dei ritratti.In mezzo c’è il groviglio delle “allegorie” e dei “teatrini”: luoghi di incontro per l’umanità conflittuale e per lo più sfasata, aggressiva, sgradevole.L’imperturbabilità distante dei volti di donne-dee che sembrano portatrici di pensiero e di giudizio e degli edifici che non sembrano più contemplare abitanti, che vivono geometrici, labirintici di per sé, allontana così un mondo meschino di esseri comuni, per noi, certamente poco amabili.L’abilità di Santosuosso, e la varietà dei suoi modi di “raccontare” per immagini, possono a tratti apparire condizionati dai gusti dell’epoca, da quell’impasto illustrativo di cui si pasce la società dell’immagine (per le strade della sua comunicazione“pubblica”, per le onde della sua “cultura di massa”), ma ha un modo forte che regge i suoi incastri e le sue differenze ed è quello di una visione intima e ferma, di una riflessione vissuta, di una spinta di pensiero che ci riguarda.  È dentro la comunicazione, ma per dire di più o per lasciare che, chi ti guarda, scopra un di più che sostiene e oltrepassa l’immagine. È su questa strada che Santosuosso ha più cose da dire e si spera voglia continuare a scavare, a immaginare, pensare, mostrare.

Goffredo Fofi, 1998

Dal catalogo “ Santosuosso” – Castelvecchi Editoria e Comunicazione

Santosuosso is striking in his several ways to depict images and himself through them because of his “extremism” in his main choices: the portrait which is not necessarily that of a real human being and which appears to be motivated by a kind of ideal desire of feminine beauty as well as a geometric layout as if it were a grand and deserted metropolis, bizarre and yet cold, as much imagined as the portraits are. In between comes the tangle of his “allegorical representations” as well as “acting stages”: the meeting points of a mankind in conflict, bewildered, agressive and unpleasant.The distant and undisturbed features of his women’s faces, like Goddesses haralding thoughts and wisdom as well as the stillness of his buildings which no longer seem to be made to host people and yet through their geometrical lives and inherent chaos are indeed like mazes, make us look from a distance at a miserable world of common beings which is for us all indeed to be disliked. Santosuosso’s talent and the variety of his “telling” through images may sometime appear to be influenced by the tastes of the time, by the illustration mix cherished by the “media society” through the avenues of its “public” communication and through the waves of its “culture of the masses”. Yet, there is a strong core supporting both his similarities and differences: an intimate and firm vision of a well thought out idea and of a thrust of thought which affects us all.His talent is inherent with communication; yet, this is purposedly done to say more, or let the people looking at his works realize that there is something more supporting and going beyond the image. This is by far Santosuosso’s most fruitful path, and the hope is that he may be willing to continue to dig in, imagine, think and show.

Goffredo Fofi

Ferruccio Giromini 

Dal catalogo OVERGROUND ART “ Santosuosso” 

 Castelvecchi Editoria e Comunicazione    

Carte Mescolate     1998

La progettazione di un ritratto non sta solo nel mettere in ideale posa il soggetto, ma proprio nel deciderne le alternanze dei volumi, nel sottolineare gli oggetti e le rientranze: ora la cupola del cranio, ora il timpano della fronte, ora l’arco del sopracciglio, ora l’ocello dell’orbita, ora il curvo balcone d’uno zigomo, ora la sporgenza del mento, ora il possente pilastro del collo. Questo cerca Francesco Santosuosso pittore nei suoi esseri umani: “la bellezza dell’architettura”. E per questo, forse, i suoi esseri umani appaiono in qualche modo anche non-umani.

Invece la decostruzione di un’architettura non sta solo nell’evidenziare lo smembramento dell’organismo complessivo in tutte le sue componenti unitarie, ma proprio nel rivederne i rapporti interni, nel reinventarne le funzioni, a volte nel ribaltarle. E’ anche per questo che, nella sua personale costruzione del decostruttivismo, Francesco Santosuosso architetto si va a cercare le soluzioni quasi più nell’interno delle strutture che nell’esterno, a volte fin nel sottosuolo, concentrandosi volentieri su aperture che come ombelichi mettano in comunicazione le viscere degli edifici con lo spazio che li circonda. Mentre le forme, pudiche, quasi si nascondono.

 Tra l’erigere e lo scavare – certo, anche dentro di sé – si muove Francesco Santosuosso creatore di forme. E che si tratti di un’operazione compunta, sacrale, demiurgica, lo testimonia il fatto che l’orizzonte è metafisico. Il farsi delle creature cresce nel vuoto. L’attenzione è concentrata solo nel fulcro dell’azione plasmatrice; il resto non importa, non esiste. In questo senso ci si allontana dall’attività di Francesco Santosuosso illustratore (un’altra delle sue facce): ossia nell’abbandono della narratività. Ossia nella scelta dell’assoluto, quasi del trascendente, a inevitabile detrimento del relativo, quasi in opposizione all’immanente.

 Ma l’avventura sta nella sorpresa. Sta esattamente nel mescolare le carte; nell’incrociare idee e gesti. L’avventura nasce nella ricerca dello sguardo, nell’attenzione al molteplice che è la materia plasmabile dell’illustratore. Poi s’incanala nel metodo, anzi nell’urgenza del metodo che è indiscutibilmente dell’architetto. E infine sfocia nella crescente ampiezza del gesto, nella pennellata che è del pittore. E’ così che l’avventura continua tuttora. Con due consapevolezze, o meglio due nuovi indizi, per andare oltre. Che le scelte del fondo sono livide, ma quelle della superficie sono spesso squillanti. E che il ritratto, specialmente se “fantastico”, è sempre autoritratto.

STIRRED PAPERS – Planning out and making a portrait does not only entail placing the person in his or her ideal posture, but indeed deciding volumes intervals, highlighting projections and intentions, the vault of their skulls, the tympanum of their foreheads, the arch of their eyebrows, the circle of their orbits, the curves of their cheek-bones, the silhouette of their nose, the holes of their nostrils, the excentric spring of their ears, the way their lips are cut, the protruding of their chin, or the powerful pillar of their neck. This is what Francesco Santosuosso paints in his human beings: “the beauty of architecture”. And maybe this is exactly why his human beings seem in some ways also not to be human.

Indeed, deconstructing an architecture does not only mean highlighting the splitting of a body into each single component, but rather revisiting the body’s inner gifts, reinventing functions and sometime turning them upsidedown. This is also the reason why, in his personal building up of deconstructivism, Francesco Santosuosso – the architect – looks for solutions more in the inside rather than on the outside, as far deep as undergound, and likes concentrating on openings which like navels connect the viscera of the buildings with the space around them, while shapes are almost hidden.

Francesco Santosuosso, creator of shapes, works between building and digging both the ground and himself. The metaphysical horizon is the evidence of his careful, sacred and demiurgic work. Creatures take shape from the vacuum. Attention is only concentrated on the very action of giving shape, the rest does not matter and does not exist. Another of Francesco Santosuosso’s many facets, that of illustrator, fades away: no more tales to tell. Indeed he has chosen the absolute, almost the transcendent to the unavoidable detriment of whatever is relative, almost apparent.

Yet, surprise is part of the adventure, like shuffling the cards, crossing the ideas and the gestures. The adventure stems from the search for a look in somebody’s eyes, from the attention to the multi-faceted which is the illustrator’s mouldable matter. Then, he gets between the tracks of method, indeed feeling the urge for it, which is definitely typical of the architect. Eventually, he has a growing width in his gestures: the painter’s brush-stroke. And the adventure goes on with two more forms of awareness, indeed two clues, to go beyond it all: the choices of the background are vivid, yet those on the surface are often bright and in a portrait there is always something of a self-portrait.

Ferruccio Giromini

Francesco Coniglio   1998

Dal catalogo “ Santosuosso” – Castelvecchi Editoria e Comunicazione

Questo libro rappresenta l’opera rigorosa di un artista inquieto e curioso. Santosuosso assiste gli sviluppi dell’arte contemporanea con una coscienza critica materialista su cui si innesta un germe umanista ed espressionista. Stereotipi e paradigmi delle avanguardie del Novecento si confrontano nei suoi ritratti e nelle sue architetture che tendono ad una “messa a punto” continua della pittura, come il tocco di un geniale carburatorista dell’arte.

STAZIONE CENTRALE    di Sergio Vanni

8 marzo – 31 marzo 2001

A poco più di due anni dalla sua prima personale Francesco Santosuosso propone i suoi ultimi lavori su tela e su tavola. Liberatosi ormai definitivamente da ogni riferimento illustrativo l’artista si concentra sul tema della città, proponendo una serie di architetture consuete del panorama urbano rivisitate con stile e tecnica molto personali, accanto a ritratti e figure di una composita umanità metropolitana, ed a segni linguistici e grafici provenienti da culture e religioni diverse.

Santosuosso dipinge così i vari aspetti, urbani ed umani, della moderna metropoli, con un segno volutamente sporco e graffiante, mescolando stili e tecniche diverse a suggerire il tema della confusione etnica che rivitalizza e caratterizza la città contemporanea.

Presentazione di Sergio Vanni al catalogo della mostra “Stazione Centrale”

Le tante visioni del mondo che si sono avvicendate nel corso del secolo appena concluso hanno fatto della città, o meglio dell’immagine della città, la sintesi delle varie modalità di rappresentare il reale, e quindi di pensarlo.

Milano è stata, per il suo ruolo industriale e culturale, protagonista di primo piano di questa iconografia urbana; obbligatorio citare Boccioni e Carrà per il primo novecento futurista, Sironi e le sue periferie urbane degli anni trenta eccetera.

Ci prova ora, si parva licet, Santosuosso con una serie di lavori che tendono a dare della città contemporanea, ancora Milano in questo caso, una lettura che tenga conto dei tanti aspetti e dei tanti stimoli che la realtà quotidiana propone, con una operazione dai molti significati.

Santosuosso va a cercare una Milano industriale, di ghisa e di ferro, fatta di vecchi ponti sui navigli, di fontane, di ferrovie, di tram, di cavalcavia, di tralicci. La riproposta di materiali così datati potrebbe condurre ad una visione nostalgica che Santosuosso azzera in primo luogo attraverso uno stile “sporco”, antiretorico ed anticlassico nell’uso sapiente di prospettive distorte ed inquadrature sghembe, ed in seguito mescolando l’immagine tradizionale, consueta e turistica ( la chiesa di S. Ambrogio, il ponte della Ghisolfa, il cavalcavia di Lambrate ) con elementi di cultura etnica, lettere arabe, volti di extracomunitari, segni cabalistici ed esoterici approdati da culture lontane ma ormai sempre più presenti ed intrecciati al nostro quotidiano panorama urbano ed umano.

La città si trasforma, è un corpo biologico che mantiene la sua anima antica di cemento e di ghisa arricchendola di suoni diversi, di colori diversi, di preghiere diverse, di volti nuovi che la fanno diventare più strana e più bella.

L’apparente dualismo della pittura di Santosuosso, l’attenzione da una parte alle architetture a dall’altra ai volti, ai ritratti, si ricompone nell’idea che esistono i luoghi che rimangono immutati per molti anni, e che esiste un’umanità che questi luoghi abita, che muta molto più in fretta; così gli accostamenti a prima vista spiazzanti, trovano nella semplice osservazione del reale la loro elementare spiegazione.

I lavori di questo giovane artista colgono la mutazione biologica, e si attestano dunque come esatto termometro di questo divenire.

Il titolo della mostra, Stazione Centrale, prende le mosse da una grande tela, quattro metri di lunghezza, appunto della stazione centrale di Milano, luogo significante per eccellenza degli arrivi, delle partenze, da sempre capolinea degli inurbati, luogo di incontro e di intreccio di tante vite, di tante esperienze, spazio simbolico e reale ad un tempo.

Accanto alla Stazione Centrale un’altra opera-simbolo: la Torre di Babele che Santosuosso dipinge alternando e sovrapponendo stili e tecniche diverse, per realizzare in pittura la confusione dei linguaggi che l’antica torre biblica rappresenta.

La confusione dei linguaggi, la confusione delle tecniche, sono l’ emblema di quella confusione che la città oggi è, facendo attenzione all’uso etimologico del termine confusione e non all’uso vagamente dispregiativo che spesso adottiamo.

Questi sono i significati storici, etici, sociali della pittura di Santosuosso che testimoniano una sua lettura attenta e moderna del mondo; ma tutto questo avrebbe poco senso se non si traducesse in valori pittorici, se il suo pensare il mondo non diventasse linguaggio.

Per raccontare la sua realtà l’artista usa immagini graffiate, dense di colori forti, alternando gesto pittorico e segno grafico, adottando qualsiasi supporto, dalla tavola di legno al ritaglio di giornale alla carta al metallo, mescolando e sovrapponendo, per arrivare infine a superare tutti gli aspetti antropologici che pure sono presenti nei suoi lavori ed a farli vivere alla fine soltanto come buona pittura.

ROBERT GLIGOROV :  Due note su Santo

Uno degli aspetti più belli del lavoro di Santo è la forza evocativa e la spudoratezza di esibire la propria perversione e deviazione.

Certo, negli anni il suo lavoro ha acquistato maturità, mistero, ma quello che più mi colpisce è la generosità con la quale si prodiga nella realizzazione di ogni singolo quadro: non sono lavori tirati via, bensì studiati con la meticolosità di un orologiaio.

Mi sono sempre chiesto se la vita privata di un artista vada correlata con la sua opera: ebbene, nel caso di Santo è tutt’uno e servirebbe una sua biografia dettagliata abbinata alla sua produzione, e così tutto acquisterebbe più senso.

Non ho mai avuto dubbi sul suo successo d’artista, anche perché prima del gesto, dell’operato, c’è il pensiero, e Santo è una sorta di scienziato della psiche umana, capace di leggere nei comportamenti e nella fisionomica il carattere e la diagnosi dell’individuo.

Se non avesse fatto il pittore, sicuramente avrebbe avuto riscontro in ambienti umanistici.

Insomma, per essere un artista completo bisogna sì avere talento e un filo diretto con quella parte del cervello da cui sgorga l’idea, ma quello che conta è l’essere tenutario di quel sapere che va oltre la cultura, la conoscenza: possedere la vitalità del dono.

Robert Gligorov

marzo 2001

I volti e le architetture di Francesco Santosuosso

Personale di pittura: Galleria Contrasti, Trani, agosto 2001

di Sergio Vanni

L’apparente dualismo della pittura di Francesco Santosuosso, l’attenzione da una parte alle architetture e dall’altra ai volti, si ricompone nell’idea che esistono i luoghi che rimangono immutati per molti anni e che esiste un’umanità che questi luoghi abita, che muta molto più in fretta. Così gli accostamenti, a prima vista spiazzanti, trovano nella semplice osservazione del reale, la loro elementare spiegazione.

I lavori di questo giovane artista colgono la mutazione biologica e si attestano dunque come esatto termometro di questo divenire.

Per raccontare la sua realtà, l’artista usa immagini graffiate, dense di colori forti, alternando gesto pittorico e segno grafico, adottando qualsiasi supporto, dalla tavola di legno al ritaglio di giornale, alla carta, al metallo, mescolando e sovrapponendo, per arrivare infine a superare tutti gli aspetti antropologici che pure sono presenti nei suoi lavori ed a farli vivere alla fine soltanto come buona pittura.

Fino ad oggi quest’anima si coglieva nei paesaggi urbani che erano diventati una vera e propria cifra stilistica, paesaggi periferici, contrappuntati da gru, cantieri, case di ringhiera, ponti di ferro; a queste immagini antituristiche e antiretoriche Santosuosso mescola, col l’uso del collage, brandelli di giornali cinesi o arabi, a significare l’aspetto multietnico della città contemporanea.

Questo artista così spiccatamente metropolitano si inventa un nuovo percorso, torna alla terra aperta, al mare, ai paesaggi di un Sud che il suo cognome denuncia come terra di origine, e propone ad una giovane galleria di una delle più belle città del meridione l’esposizione dei nuovi lavori.

Così nascono i paesaggi inondati di luce, le cattedrali, le visioni dei porti, le onde, le darsene, i moli, e come nei paesaggi urbani, torna la componente architettonica, lo studio preciso di una struttura applicata prima ad un edificio, ora ad uno spazio agreste o marino; come rimane l’altro segno stilistico forte di Santosuosso, la sua pittura “sporca”, gestuale che toglie il soggetto dal nitore calligrafico e lo reinterpreta attraverso uno stile personale.

Rimangono in queste tele ed in queste carte, i brandelli di giornale, le scritte etniche che, se significavano la confusione linguistica negli spazi metropolitani, qui assumono un significato diverso: il senso della memoria, della storia.
Non era forse Trani il porto da dove partivano le navi crociate per l’Oriente? Non sono state queste terre percorse da arabi, levantini, turchi? Non è stato il Sud luogo d’incontro tra cultura occidentale e cultura araba fin dall’alto Medio Evo?

Nei lavori di Santosuosso questi alfabeti ritornano, alcuni particolari degli stili architettonici arabeggianti si evidenziano, e ci fanno capire che le culture, oggi come ieri, per fortuna si mescolano.

Questi sono i significati storici, etici, sociali della pittura di Santosuosso che testimoniano una sua lettura attenta e moderna del mondo.

Ma tutto questo avrebbe poco senso se non si traducesse in valori pittorici, se il suo pensare il mondo non diventasse linguaggio.

Alessandro Riva 

La Milano (s)perduta di Francesco Santosuosso 

 Che la pittura di paesaggio ­ e quella incentrata su quel bizzarro crogiolo di contraddizioni e luoghi comuni, di esperimenti-pilota dello sviluppo ipercapitalistico e allo stesso tempo di lampanti ed estreme metafore del più generale processo di sparizione del luogo così come tradizionalmente eravamo abituati a considerarlo, che è diventato oggi il paesaggio urbano ­,che questo genere di pittura, dicevo, sia oggi inaspettatamente risorto dalle sue ceneri, come un’araba fenice in grado di rigenerarsi nel momento in cui veniva data più che mai per morta e defunta, è un dato di fatto dal quale è oggi difficile prescindere. In Italia, in particolare, è sorta in quest’ultimo decennio una vera e propria scuola, una scuola più o meno priva di maestri ed allievi e punti di riferimento codificati se non quelli delle naturali convergenze tra il lavoro di un artista con quello degli altri della sua generazione, che ha portato decine di artisti ad affrontare, in chiave soprattutto pittorica, la storia e l’identità dei luoghi che li hanno visti crescere o che li hanno formati. In questo quadro, la riflessione sul paesaggio urbano è diventata una delle punte di diamante di questa ritrovata capacità di autoanalisi, da parte degli artisti, del proprio vissuto sociale e culturale: perché è proprio in questi strani e folli luna park in cui siamo ormai abituati a vivere, che contengono in sé il fantasma di ciò che oggi non esiste più (la città moderna di baudleraiana memoria, quella città nella quale era possibile vedere, dal davanzale della propria finestra, confondersi nel paesaggio urbano i campanili delle chiese e le ciminiere delle fabbriche, nella coesistenza dei quali Jean Starobinski vedeva il senso stesso della modernità; quella città utopistica, fatta di slanci verso il progresso e di spinte verticali, formata dalle mille spirali di forze architettoniche di cui parlava giustamente Boccioni, il pittore della città che sale e della strada che entra nella casa, sulla quale sono cresciuti i grandi monumenti del moderno, le babeliche Stazioni centrali e i tanti grattacieli Pirelli o le Torri Velasche del secolo appena trascorso), è in questi luna park che contengono in sé, dicevo, il fantasma di quel sogno utopistico e la memoria della sua perdita, in breve la fatale consapevolezza della sparizione di ogni possibilità di ricomposizione di un’identità, qualsiasi essa sia: dunque la certezza di non poter più rappresentare neppure, volendolo, la straziante bellezza del caos­ quella che ha fatto grande la letteratura americana di questo secolo, da Dos Passosa Paul Auster e giù giù fino a Mc Inerney e Bret Easton Ellis­, di non poter più simboleggiare insomma, come un tempo avveniva, attraverso un monumento, un quadro o un romanzo, l’anima stessa della contemporaneità; è in questi luoghi, o miscuglio di luogo e non luogo, secondo la felice quanto abusata definizione di Marc Augé, che meglio che mai, oggi, si condensa ancora, e nonostante tutto, il simbolo del nostro esistere incerto e imbarazzato, la metafora piena e quanto mai indovinata della nostra stessa perdita d’identità e di baricentro, qualsiasi essi fossero un tempo.In questo contesto, il lavoro di Francesco Santosuosso segue, da anni, in una sua maniera insieme stranamente appartata e fragorosa per la singolarità dei modelli tecnici e dei riferimenti, adottati, un suo percorso coerente e del tutto originale rispetto al lavoro dei suoi molti coetanei che sulla città – e su Milano in particolare – hanno lavorato e tutt’ora lavorano. Lo sguardo di Santosuosso è puntato infatti su Milano, ma non è la Milano dei Fabbriconi di testoriana memoria, quell’odiata e amata città che il poeta e narratore del Ponte della Ghisolfa ha cantato magistralmente a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, non quella dei palazzoni degli anni Quaranta della prima o della seconda cerchia dei Navigli, ma una Milano ruvida, sporca, affastellata di segni e di scritte (anche arabe o cinesi, certo, ma senza la retorica da melting pot buonista oggi molto in voga: semplicemente perché così è, e basta andare in giro per strada o in una qualsiasi scuola media, di mezza periferia o di mezzo centro, per vederlo), di graffi e di correzioni, di naturale sporcizia e di altrettanto naturale confusione; una Milano che non ha punti focali, ma ha punte, slanci, guglie improvvise che si possono via via identificare con un grattacielo (il Pirelli) o un’antenna gigante, con una torre di piastrelle o una torre di babele, ma che rimane comunque una Milano che non ha monumenti da offrire al mondo, non ha un’immagine da dare all’esterno se non quella della propri ormai incerta identità, fatta di un coacervo di elementi a se stanti, di particolari e dettagli, di case sparse nell’incerto magma urbano e di isolati che hanno perso il rapporto con il resto del quartiere in cui sono cresciuti, di un caotico affastellamento, anche dal punto di vista stilistico e tecnico, di carta e stracci, di graffi e colori, di segni ecollages, di muri veri e di materiali già vecchi e scadenti, di storiche officine o fabbricotte e di nuovi mercatoni costruiti in stile brianzol-californiano; una Milano che è centro e periferia insieme, che non rappresenta più, né può più rappresentare, la città moderna che, per dirla ancora con le parole di Marc Augé, accumula e concilia, quella che cerca,seppure attraverso il folle miscuglio dei generi, un tentativo di ricomposizione, quanto piuttosto la città del contemporaneo che ha perso ogni speranza di unità stilistica e compositiva, la città che ha inevitabilmente rinunciato a raccontare e sedurre ( e non c’è infatti racconto né ammiccamento nei folli e volutamente caotici quadri di Santosuosso), la città-periferia in cui convivono gli osceni corpi di qualche improbabile e neonato palazzone del terziario e lo spettro di un improvvisato campo-nomadi, la sagoma d’un centro d’accoglienza e il motel di lusso, e poi i quartieri-bunker e le vecchie cascine abbandonate, i giganteschi agglomerati commerciali e gli avveniristici templi del divertimento troneggianti in mezzo alla campagna: tutte quante icone, in fondo, di un’utopia fatalmente sfuggita di mano anche ai suoi più limpidi e sfegatati teorici. Quella di Santosuosso è una città, una Milano, che non èné centro né periferia, perché il centro si è dissolto in un castello di carte mal riverniciate e rimesse a nuovo per le signore-bene che vi abitano e condito di luci al neon per i giovinastri che vi piovono a frotte il sabato pomeriggio, e anche la periferia, ormai, ha perso la sua specificità, il suo baricentro, è diventata un territorio opaco, uno spazio neutro, uno tra i tanti non luoghi di cui è costellata la sua modernità, perfetta metafora del nostro spaesamento, della nostra condizione di uomini che hanno perso i confini, che hanno confuso e ruoli e significati del proprio stare nel mondo, che si guardano con aria bollita nei metrò e per la strada e non riconoscono che strane maschere esotiche, volti bizzarri di cui non sanno leggere né la storia né l’identità – e che pure forse, qualche volta, vi riconoscono ancora un barlume d’umanità, là sotto a quei piercing, sotto a quella patina da moderno guerriero africano, dietro quella strana divisa e quei simboli di cui nessuno sa più tradurre il significato o la lingua.

Alice Moretti 2002    SANTOSUOSSO – PERSONALE VIENNA

Una vena, a un tempo ironica e impegnata, e una controllata programmazione architettonica sono alla basa di questa mostra. Considerando che l’artista non conosce la Vienna”vera” e quindi la dipinge ispirandosi all’iconografia studiata sui libri d’arte, bisogna riconoscergli una rara fiducia nelle sue capacità: Santosuosso crede in ciò che fa, cattura la visione della città, la divora e la rende inquietante ed astratta.

Nei grandi dipinti architettonici resi quasi sensuali da pennellate dense con paste rosse, oro liquido e astratti grigi fumosi e gialli solari, si affaccia la trama della città di Vienna. In questo scenario, il paesaggio urbano è riconoscibile e stralunato allo stesso tempo, diventando una sorta di koiné rappresentativa dove il pater, St. Stephan, la Gloriette e i caffè viennesi si mescolano ai panorami cittadini e periferici di tutte le città del mondo.

La personalità di questo artista – architetto viene rivelata dal dualismo che si esplica nella costruzione del disegno tecnicamente perfetto spesso completamente celato da strati di pittura stesa a spesse spatolate.

Particolarmente singolare è il suo “tema di architetture industriali”, che egli riesce a declinare con molta originalità, creando un miracoloso equilibrio fra la ricerca di nuove strade espressive e la razionalità del sapere architettonico.

L’artista continua a svolgere un’analisi su spazi, tempi, luoghi esistenziali intesi come segni di una inesauribilità del reale.

I dipinti di Santosuosso non sono mai disgiunti da valenze concettuali, e quindi il suo messaggio non è mai esclusivamente visivo, ma risulta ricco di qualità narrativa e allusiva. Quindi il fruitore avrà non solo un quadro artisticamente attraente ma un’opera d’arte densa di significati.

Gerlinde Schmidt           

Francesco Santosuosso          FRANCOFORTE 2003

Städte sind geballte Räume, dicht, vorläufig und schnelllebig, Überschneidungsorte vieler Wirklichkeiten.

Francesco Santosuosso malt Städte. Sie sind ihm, dem gelernten Architekten, zuallererst gebaute Wirklichkeit.

Sein geschultes Auge kann Gebäude „lesen“ und mit den Mitteln der Perspektive abbilden. Santosuosso hat Milano, seine Heimatstadt, portraitiert: die Stazione Centrale, die Chiesa Sant’ Ambrogio, Hochhäuser, Industrieanlagen.

Er bevorzugt die Vogelperspektive, schaut von oben, aus einer Entfernung, die es ermöglicht, ganze Komplexe zu erfassen.

Er hat Wien gemalt, ohne es besucht zu haben: den Stefansdom inmitten eines Häusermeeres, das Belvedere, ein Gasometer, die Donau. Frankfurt kennt der Maler von einem Video und von Fotos. Er nähert sich aus der Luft, wie ein Tourist, der einen Rundflug gebucht hat.

Man erkennt die Skyline, Frankfurts Markenzeichen schlechthin, die steil aufragenden Hochhäuser, die am Boden klebenden Gleishallen des Hauptbahnhofs, den Dom, den Main mit seinen Brücken. Deutliches ist von Undeutlichem umgeben.

Der Blick muss vieles ausblenden, um Einzelnes zu erinnern. Stumpfe Farbflächen und gestische Pinselspuren arbeiten der Tiefe des Raumes entgegen. Die Malerei ist verwaschen, roh, ungenau, manche Farben tun sich gegenseitig weh.

Auf eingeklebten Papieren sind fremdländische Schriftzeichen zu sehen. Santuossos Städtebilder sind frei von Nostalgie.

Er gibt auch dem Historischen ein zeitgenössisches Gesicht, bricht das Vertraute am Fremden, schafft daraus ein Ganzes, dessen Schönheit die rauhe Unwirtlichkeit der Städte nicht leugnet, sondern miteinschließt.

21 OTTOBRE – 13 NOVEMBRE 2004

Personale di pittura di Francesco Santosuosso

LE PROVINCE E L’ IMPERO

di Sergio Vanni

Titolo inconsueto per una mostra coraggiosa che nasce dalla ribellione alla situazione di un linguaggio dell’ arte che racconta prevalentemente se stesso e l’ ossessione della quotidianità.

Santosuosso aggiunge alla ricerca formale e strutturale relativa alle architetture urbane un significato storico e ideale oggi necessario per raccontare il mondo, svegliando l’ artista dal sonno narcisistico e richiamandolo allo scontro tra civiltà e barbarie.

Dalla presentazione in catalogo di Marco Meneguzzo:

GUARDO IL TUO CUORE, CITTA’   2004

Marco Meneguzzo

Alberto Savinio, da geniale scrittore qual era, riusciva ad ascoltare il cuore della città. Francesco Santosuosso, da vero pittore ( e architetto) qual è, riesce a vedere il cuore della città. Entrambi, poi, da artisti, riescono a restituire a chi guarda quelle loro sensazioni e intuizioni, nate dalla convinzione che la città sia un grande organismo vivente, anche e soprattutto nei suoi muri, nelle finestre, negli oggetti e nelle architetture.

Ecco allora, per Santosuosso, un titolo parafrasato da Savinio – che in “Ascolto il tuo cuore, città” parla di una vita segreta delle cose -, trasposto su scala urbana e nel linguaggio della pittura, in una sorta di “paesaggio ritrovato” che, col superamento nel pianeta della popolazione urbana su quella rurale, vede appunto il “suo” e il nostro paesaggio più tra i segni dell’uomo che tra le creazioni della natura. La città vive, dunque (prima banalità…) e ogni città ha un proprio carattere (seconda banalità…): non si deve aver paura del luogo comune, quando è vero…semmai, il problema è superare lo stereotipo indotto dal luogo comune per ascoltare e vedere il “cuore” di queste città, sapendo usare sapientemente degli ingredienti retorici della pittura “di genere” – e il paesaggio è il primo tra i generi della pittura -, con l’aggiunta di una buona dose di passione personale, che in questo ultimo ciclo di lavori di Santosuosso si potrebbe addirittura definire “civile”.

Basta infatti scorrere i luoghi dipinti da Santosuosso per costruire una geografia delle “top ten” da telegiornale: Bagdad, Mosca, New York, Roma, Gerusalemme…la sfida, per un pittore, è grande: ha di fronte migliaia e migliaia di immagini di queste stesse città trasmesse ininterrottamente in tutti i notiziari del mondo, ma ha anche un grande vantaggio, che è quello per cui la pittura insegue la “verità”, che più di una volta è qualcosa di diverso dalla “realtà”. Così, la Bagdad che scorre dietro gli inviati speciali – quella specie di rondò viabilistico, che potrebbe essere ovunque, se la scena non cambiasse ogni tanto, inquadrando da lontano, molto lontano, la cupola azzurra di una moschea… – o anche la Bagdad sotto i bombardamenti, nella luce verdina degli infrarossi, è meno Bagdad di quella veduta dipinta da Santosuosso – che a Bagdad non è mai stato… -, dove bagliori e fuochi si accendono, e diventano qualcosa di diverso, di metaforico, di simbolico e quindi di più “vero” delle immagini trasmesse in diretta dalla televisione (è ovvio che qui si parla sempre di rapporto tra le immagini, perché ben diverso è il senso della verità e della realtà di chi ci stava davvero, accanto all’autobomba…). Allo stesso modo, quando l’artista, dipingendo Gerusalemme (dove invece è stato, ma non ha soverchia importanza…) letteralmente “avvicina” sulla tela, in quella sua tipica veduta a volo d’uccello, e in modo che è dichiaratamente artificioso ma non esagerato, la Grande Moschea, il Muro del Pianto e la chiesa del Santo Sepolcro, ci racconta visivamente dell’incontro/scontro tra religioni molto di più di quanto non facciano le solite (sic) inquadrature dei soldati e dei carri armati da una parte, dei ragazzini che lanciano le pietre dall’altro…

La querelle sul paesaggio reale e su quello ideale – se sia quest’ultimo o l’altro a prevalere, in pittura, o, addirittura, se il paesaggio in arte sia sempre “ideale”…- non è cosa nuova, visto che la questione si era posta già nel tardo Cinquecento, ma oggi a questo problema di rappresentazione si è aggiunto un dato di complicazione non indifferente. Se, infatti, allora gli elementi di questa equazione erano due, e cioè la realtà e la pittura, oggi sono diventati almeno tre, considerando il fatto che quei paesaggi dipinti – da Santosuosso così come da tutti coloro che si impegnano nella rappresentazione di paesaggi – sono sempre filtrati dal altre immagini. In altre parole, noi conosciamo ormai tutti i paesaggi del pianeta (e a maggior ragione quelli investiti da qualche fatto politico o di cronaca) grazie al bombardamento di immagini dei media; in altre parole, noi vediamo Bagdad attraverso gli occhi della televisione, attraverso le visioni che quella ci fornisce, e che diventano a un tempo lo stereotipo dell’immagine di quella città e il filtro tra la realtà e l’eventuale nostro sguardo che ne volesse cogliere l’anima o, come si è titolato, “guardare il cuore” attraverso la pittura. Il “passaggio” del paesaggio da realtà a sguardo si è dunque arricchito e complicato di quel formidabile elemento che è lo stereotipo mediatico, che si frappone tra reinterpretazione e realtà, divenendo il referente primo, ultimo e persino ultimativo di ogni futura rappresentazione di quella realtà. Santosuosso risponde a questa sfida con una strategia mobile, a volte assecondando quello stereotipo, a volte stravolgendolo, sempre riuscendo a fornire, in questi ritratti di città, una visione diversa: ora utilizza il metodo antico di accentuare la grandezza di un edificio – la basilica di San Pietro, ad esempio – o la visibilità di un elemento cardine dell’urbanistica – un fiume, un’autostrada -, ora enfatizza un fatto per cui quel luogo è noto, e trasmesso al mondo, come la parata militare sulla Piazza Rossa a Mosca. Su tutti i luoghi, elemento comune della sua pittura, e quindi indicazione “morale” di una sensazione e di un sentimento, aleggia un senso di tragedia cosmica suggerito dall’atmosfera di tregenda meteorologica. Sui cieli delle sue città difficilmente splende il sole, e le nubi cupe, gravide di qualcosa di più della pioggia – una pioggia nera? -, diffondono sugli edifici luci pesanti, creano ombre più vive e più solide degli edifici di cui sono il fantasma, e tutto assume il colore e la consistenza di un organo pulsante, irrorato di sangue, che è messo a nudo in questa strana operazione chirurgica, guidata dall’artista, di “guardare il cuore” delle cose. Le città dipinte da Santosuosso sono, per così dire, “sotto i ferri”, per cui esiste il rischio evidente del collasso, della catastrofe, con cui la città come idea e come immagine sta convivendo da tanto, tanto tempo… dai tempi della “Veduta di Toledo” de El Greco o, se si vuole, dalle immagini di Gotham City nel “Batman” di Tim Burton.

LIBRERIA FMR

15 OTTOBRE 2005

In occasione della giornata del contemporaneo promossa da AMACI Associazione Musei d’Arte Contemporanea Italiani.

Santosuosso conclude la trilogia che lo ha visto indagare le strutture architettoniche partendo dagli edifici milanesi per allargarsi ad una visione sulle diverse città dell’ Europa e del mondo, aggiungendo ad una pittura di pura indagine strutturale e cromatica una lettura sempre più sociologica e politica del mondo urbano, attraversato da incroci razziali e coabitazioni linguistiche.

La crescita ideologica del lavoro di Santosuosso si accompagna ad una evoluzione linguistica, con uno stile che si è liberato da certi preziosismi calligrafici per accentuare l’ incisività del segno e la grumosità espressiva del colore.

S.V.

ANTIGRAZIOSO 1985

PROPOSTA GIOVANI 5 DELLA GALLERIA 9 COLONNE

AGGRESSIVITà DEI TEMI TRATTATI,DUREZZA DI ESPRESSIONE FORMALE E VIOLENZA INTERPRETATIVA SONO VALORI COMUNI A TUTTE LE OPERE PRESENTATE,CHE PUR CONSERVANO SEMPRE IN Sé CARATTERE DI UNICITA’ E SPICCATA PERSONALITà DEI LORO AUTORI.

Riccardo Aichner

Patrizia Gandini

Paola Pezzi

Pamela Vercelli

Francesco Santosuosso : vive a Milano ,racconta in 4 quadri ,creati con aspra e inquietante espressività,l’eterna avventura umana in una drammatica ambientazione fantascientifica.

ROSABIANCA MASCETTI

Sturm und drang in salsa contemporanea

 di Alessandro Riva

 Di paesaggi ne abbiamo visti un’infinità, in questi ultimi anni. Potremmo dire: nell’ultimo decennio, e qualcosa di più. Che la pittura di paesaggio sia stata uno dei generi più praticati, e ri-praticati, negli ultimi dieci-quindici anni, in Italia e altrove, è uno dei punti ormai indiscutibili e da cui è difficile prescindere, quando si parla dell’arte italiana di questo incerto passaggio di secolo. Su questo tema – la ripresa e ridefinizione dei generi tradizionali della storia dell’arte – ho imbastito una mostra, nel 2001, che in un modo o nell’altro ha segnato uno spartiacque nell’arte di quegli anni, e di quelli a venire. La mostra si chiamava “Sui generis”, ed è stata una delle più visitate in assoluto del Padiglione d’arte contemporanea, a Milano. Il punto che affrontava – e che dopo quella mostra è diventato, potremmo dire, un dato acquisito – era il tema della rivisitazione in chiave contemporanea del “genere”. Un tema non scontato: fino a quel momento, parlare di generi aveva il sapore delle “piccole cose di pessimo gusto”, come parlare di merletti o di tombolo. Il concetto di “genere”, infatti, dopo il diktat avanguardista che lo relegava tra le anticaglie del pensiero artistico, era divenuto una sorta di tabù per l’arte più evoluta e più attenta ai linguaggi sperimentali e d’avanguardia. L’anatema futurista (“E che diremo degli specialisti? Suvvia! Finiamola, coi Ritrattisti, cogl’Internisti, coi Laghettisti, coi Montagnisti!… Li abbiamo sopportati abbastanza, tutti codesti impotenti pittori da villeggiatura!”), a cent’anni e passa dal primo, storico manifesto del 1909, aveva (e in parte ha) ancora una forte presa sugli artisti che non vogliono correre il rischio d’essere considerati “passatisti”, che è poi la lebbra peggiore che possa attecchire su chi si occupa e pratica l’arte nel secolo delle avanguardie. 

Ma. C’è un “ma”. Da una quindicina d’anni e passa a questa parte, appunto, qualcuno ha cominciato ad accorgersi che, senza predicare inutili “ritorni all’ordine” di cui nessuno sente il bisogno, c’era però, nel corpo della società e della cultura, un bisogno di ripescare dalle esperienze passate – anche pre-avanguardiste – per provare a ragionare in termini contemporanei. C’era la necessità, soprattutto, di smetterla coi diktat, gli steccati, i tabù. Di mescolare piani, livelli di lettura, habitat diversi, pubblico di riferimento. 

Non era, e non è, un fenomeno isolato al solo linguaggio (se si può ancora parlare di linguaggio per un soggetto che ha perso volontariamente i confini dei linguaggi, per invaderli indistintamente tutti) dell’arte visiva, ma che riguarda anche il cinema, la letteratura, la televisione. È un fenomeno fortemente radicato nella stessa cultura postmoderna (dunque che data, nel suo fenomeno più ampio, da una ventina d’anni buoni), e che ha visto, in questi anni, il recupero e la ridefinizione di generi “bassi” e “popolari” come il noir, la fantascienza, il fantasy, all’interno della cultura cosiddetta “alta”: pensiamo al fenomeno del successo di molta letteratura noir, al cinema splatter, a Tarantino e ai suoi epigoni, alle grandi saghe di fantascienza o al ritorno di molto cinema e letteratura fantasy, da Tolkien in poi, un tempo considerata roba buona per ragazzini un po’ disadattati o per nostalgici fuori dal tempo.

In questo contesto, il recupero del “genere” in pittura è stata un’operazione spontanea, voluta e praticata “dal basso”, cioè dagli stessi artisti, senza interferenze e teorizzazioni a priori, che si inseriva, in maniera fluida e lineare, nel medesimo solco che, contestualmente, stavano tracciando coloro che praticavano la scrittura, il cinema, la televisione. Un recupero, appunto, di generi tradizionali, fino ad allora snobbati perché considerati “bassi” o popolari, selvaggiamente e felicemente mescolati a riferimenti alti e a linguaggi colti e complessi, all’interno di un nuovo modo generale di concepire l’opera: che smetteva così di avere obblighi di gerarchie, elitarismi forzati, inutili snobismi formali. 

Francesco Santosuosso si è inserito, non da ieri, in questo solco, con un suo percorso assai coerente e indiscutibilmente lineare. Proveniente dall’universo dell’illustrazione e del fumetto (dunque da quel vasto serbatoio di linguaggi e di riferimenti che recano già in sé le tracce di una vocazione autenticamente e genuinamente popolare, da “quell’impasto illustrativo”, come ha scritto Goffredo Fofi nella presentazione di uno dei primi cataloghi dell’artista, “di cui si pasce la società dell’immagine”), ha poi pian piano sconfinato nell’arte con la “A” maiuscola, senza tuttavia mai rinnegare le sue origini e il suo background. Ha cominciato eseguendo ritratti “metropolitani”, dalle atmosfere ruvide e spigolose, che risentivano molto di certe atmosfere alla Metal Hurlant, alla Humanoides Associés, ovvero di quel brodo di cultura, tra fumetto, immaginario fantascientifico e cyberpunk, di cui molti dei giovani degli anni Ottanta si sono voracemente e confusamente cibati, cominciando però nel contempo a ragionare sulla differenza tra meccanismo illustrativo e linguaggio pittorico da un lato, e sull’idea, e sul senso, della riflessione sul nostro paesaggio quotidiano e simbolico dall’altro. Da questa duplice chiave di ricerca potremmo dire che, ancora oggi, Santosuosso è tenacemente avvinto. La sua è un’attività dinamica, fervida, operosa, che non smette di cercare, di scavare, di immaginare altri modi e altre chiavi di lettura simbolica del reale, sempre a partire dall’immagine dipinta.

Per anni, Santosuosso ha lavorato sul cuore della città.

La città (Milano) è diventata, potremmo dire, la sua cifra stilistica, il suo inesausto campo di sperimentazione e di ricerca. Il territorio urbano si è così trasformato, negli anni, per Santosuosso, in un crocevia di storie, di energie, di riferimenti incrociati: e nello stesso tempo in un grumo di simboli, di schemi, di stilemi, complessi agglomerati di riferimenti linguistici e visivi: scritte, simboli, segnali, segni, lettere, testate, monumenti; la città è tornata, nei complessi e articolati schemi visivi santosuossiani, simili per molti versi a certe carte topografiche arcaiche, dove la pianta geometrica della città e i suoi riferimenti simbolici reali (monumenti, palazzi, alberi, mura, etc.) erano inestricabilmente fusi in un unico, articolatissimo insieme, a essere ciò che nel nostro profondo immaginario è sempre stata: un crocevia, appunto, di energie contrastasti e confliggenti, un inestricabile coacervo di segni, di volti, di suoni, di rumori, di immagini, di colori disarmonici e contrastanti, dotati, tuttavia, di una loro intrinseca e fortissima carica allegorica.

In questo suo ultimo, felicissimo ciclo pittorico, Santosuosso ha indiscutibilmente compiuto un ulteriore salto nella sua ricerca di chiave interpretativa simbolica del reale. E lo ha fatto, paradossalmente, allontanandosi sempre più dal nostro immaginario quotidiano. Non c’è più la città, non ci sono più i volti che vediamo ogni giorno sugli autobus o nei vagoni della metropolitana, non ci sono più i riferimenti al cinema o all’illustrazione di taglio fantascientifico e cyberpunk che potevano filtrare tra le righe dei suoi primi esperimenti pittorici.

C’è solo un vasto, fremente orizzonte segnico e plastico che affonda le mani nel nostro più profondo immaginario ancestrale, e pesca, alternativamente, dal bacino della grande tradizione romantica da un lato, da certo espressionismo rivisitato in chiave ipercontemporanea, dal linguaggio e dagli stilemi dell’informale europeo, e da un indistinto background da saga fantasy dall’altra: apparentemente, una pittura tradizionale di paesaggio, che ha però conservato nella sua memoria più profonda tutto un gusto d’accademia rivisitato però in chiave, potremmo dire, pop, una maestria tecnica messa al servizio di una mente fervida e astutamente eccitata e divertita nel rimescolare incessantemente le carte del nostro immaginario, quasi ci trovassimo a fare i conti con la perizia d’un pittore di marine che volesse divertirsi a riprodurre i fondali di un Moby Dick dell’era postindustriale e postatomica: ecco allora alternarsi sconfinate pianure, montagne, aurore, bagliori, fumi, cieli, persino immagini cosmiche e stellari, e poi cucuzzoli di isole che all’improvviso emergono da immensi e tormentati mari in tempesta, e acque, e onde, e flutti, tutto un diluvio universale simbolico e allusivo d’un guazzabuglio interno ai nostri più privati moti dell’anima, ai nostri sogni e drammi più segreti, al nostro agitarci e contorcersi nelle spire della vita quotidiana senza sosta, senza pace, senza alcun sollievo; tutto un sentore che è insieme profondamente radicato nella storia della pittura occidentale (quasi un repêchage tardottocentesco, un rifluire di quell’humus da romanticismo nero, gotico, portato in auge dai pittori dell’immaginario che furono tanto cari a Giuliano Briganti, e oggi rivisitato in chiave pop, da sturm und drang in salsa contemporanea), e che dall’altra strizza l’occhio, consapevolmente, a certa illustrazione popolare da copertina Urania, alla Karel Thole, o alla Giger, quasi assistessimo a un moderno rimescolarsi di elementi di pittura “cosmica” tardottecentesca o addirittura primofuturista (pensiamo ai quadri “cosmici” di Armaldo Ginna o a quelli di Tullio Crali, ma anche alla Pittura nucleare di Baj e Dangelo, al loro voler “reinventare la pittura” attraverso la “disintegrazione delle forme”, dove “le forze sono le cariche elettriche”, e “la verità non vi appartiene”, poiché “è dentro l’atomo”), con elementi volutamente prelevati dal corpo della cultura di massa: illustrazione, residui d’accademia, immaginario cinematografico e cartoonist; il tutto volutamente mescolato e ripescato in chiave ironica e giocosa, ma allo stesso tempo anche serissima, eccitata, partecipe, fremente: quasi ci fosse, in quel saper sapientemente mescolare tutto (riferimenti colti e popolari, alti e bassi, strettamente inerenti al linguaggio della pittura e indiscutibilmente extrapittorici), la padronanza e la consapevolezza di chi sa che oggi, che anche l’epoca del postmoderno è superata, non c’è più spazio neppure per il gioco ironico e scoperto dei riferimenti e delle citazioni, ma solo per un sapiente rimescolamento di ogni stilema, di ogni riferimento, di ogni frammento di conoscenza visiva che la nostra retina ha saputo e voluto registrare.

Chi avesse scambiato la pittura di Santosuosso per una banale riproposizione di una “normale” pittura di paesaggio, si dovrà ricredere: la sua forza, la sua originalità sta nel fatto di sapersi nascondere, mimetizzare, infiltrare sotto la pelle di una forma apparentemente classica e (ri)conosciuta, per poter rinascere come elemento nuovo, originale, genuinamente contemporaneo.

MASSIMO MORETTI

SANTOSUOSSO. L’ANOMALIA BORGHESE

per il catalogo    SANTOSUOSSO – RITRATTI 2004-2008

Lucido, analitico, solido, eclettico, anticipatore, barocco, visionario, virtuoso, poliedrico, vibrante, evocativo.

Difficile contenere il genio di Santosuosso nei confini di una aggettivazione.

La sua opera è attraversata da una complessa geometria di intenti, da un’articolata percezione della realtà che lo spinge ogni volta a reinventarsi affrontando contenuti e atteggiamenti pittorici differenti.

Una delle costanti più significative della sua produzione è la vocazione per il ritratto, una passione che lo accompagna fin dai suoi esordi e lo porta oggi ad essere considerato fra i primi ritrattisti documentati della sua generazione.

Una presenza, quella del ritratto, che troviamo persino nelle sue personali dedicate alle architetture e ai paesaggi urbani dove proprio per contrasto di contenuti assume un ruolo incisivo, come una sorta di attenta testimonianza del suo agire pittorico.

E testimoni attenti lo sono più che mai in questa ultima personale, concepita come progetto unitario di mostra e libro, interamente dedicata al ritratto, in cui Santosuosso in una sorta di riflessione esistenziale, di lucida confessione, ha chiamato a raccolta, riunito e reinterpretato le figure che hanno rappresentato la sua etnia e la sua anima.

Un’anima borghese dove per borghese si intende soprattutto un atteggiamento pittorico, un modo di sentire e raccontare; un mondo raccontato attraverso una pittura che si svincola dalla retorica dei macro contenuti e torna alla persona per ricostruirne la storia attraverso i dettagli che ne costituiscono lo scenario.

E qui entriamo in un secondo livello di lettura della personale, il sociale, che Santosuosso affronta raccontando il suo mondo, la sua idea di società, quel contesto metropolitano milanese profondamente borghese che legge attraverso i suoi tic, i suoi valori, la sua capacità di generare il “diverso” anche nell’omogeneità di un’etnia.

Un momento di profonda riflessione sociale che si rispecchia negli aspetti tecnico-formali, il terzo livello di lettura, che ruotano attorno alla domanda di come sia possibile fare ritratto attraverso la pittura, di quale sia il senso della pittura nel ritratto.

La risposta è nell’attualità dei suoi quadri, nella loro evocatività, in quel senso di contemporaneo che trasmettono personaggi vivi, intensi, verticali, assurdamente veri e presenti, per raccontare i quali viene abbandonata la ricerca formale ma scelti differenti atteggiamenti pittorici coerenti con il loro vissuto e il racconto che chiedevano a Santosuosso di scrivere per loro.

Massimo Moretti

ADRIANO MEI GENTIULUCCI  2005

Attivo da più di 15 anni nel panorama della pittura italiana, connotato da uno stile e da una cifra linguistica che lo hanno imposto all’ attenzione di quella critica che guarda con crescente interesse alla figurazione contemporanea, Santosuosso continua la sua ricerca in un ambito che lega l’immagine urbana ai significati sociologici che oggi la città esprime.

Nella collana “overground art”che l’ editore Castelvecchi dedica ai giovani pittori emergenti compare nel 1998 il primo importante catalogo di Francesco Santosuosso, tenuto a battesimo da Goffredo Fofi e Ferruccio Giromini. Santosuosso aveva alle spalle un passato di lavori per l’ editoria, ritrattista per la rivista Panorama, indagatore di vari linguaggi espressivi che indirizzava verso soggetti diversi, dai ritratti di personaggi underground a visioni di architetture futuribili e città immaginarie.Il libro raccoglie 10 ANNI della produzione dell’autore, dipinti e disegni esposti in collettive, manifestazioni e centri sociali.Ed è ancora nel 1998 la prima mostra personale presso la Galleria l’Affiche di Milano, dove questo mondo variegato e composito per soggetti e tecniche viene proposto al pubblico.

Ed è ancora in questo anno fondamentale per la formazione di questo artista la decisione di abbandonare le multiformi esperienze grafiche ed illustrative precedenti e di dedicarsi solo ed esclusivamente alla pittura.

Così come si definisce la scelta di campo, cominciano a delinearsi in maniera più netta i fondamenti di una ricerca che spinge Santosuosso verso il paesaggio urbano e le strutture architettoniche; l’ artista, che in architettura si era laureato, avverte forte il fascino dello spazio e l’ indagine sugli elementi strutturali che lo definiscono, traccia con segno forte i contorni passando alla fase cromatica con scelta di colori forti e accesi, il blu intenso, il rosso vivo.

Santosuosso si conquista così la sua cifra stilistica, il suo lavoro interessa molti addetti ai lavori e gli consentono di inanellare una serie di mostre in Italia e all’ estero: nel 2001 “Stazione Centrale” ancora alla Galleria L’ Affiche di Milano, nel 2002 “Frau Wien” alla Galleria Image di Vienna, con testo in catalogo di Marco Meneguzzo, sempre nel 2002 “Architetture” presso la FMR Libreria di Milano, con testo in catalogo di Alessandro Riva, nel 2003 “Prospettive Aeree” alla Galleria Carloni SpazioArte di Francoforte, con testo in catalogo di Gerlinde Schmidt.

In tutta questa serie di lavori Santosuosso affina le sue qualità stilistiche e tecniche, indaga formalmente le varie possibilità prospettiche, dalle vedute aeree di derivazione futurista alle vedute d’ insieme di sapore addirittura rinascimentale; sceglie edifici storici nel tentativo di conservare identità alla città in continua evoluzione e trasformazione; ma la sua indagine non si ferma alle soluzioni formali e strutturali dell’ opera; Santosuosso inizia a rivestire i suoi paesaggi urbani di valenze sociologiche; l’ inserimento di lacerti di giornali di segni linguistici diversi e fortemente significanti, con tecnica a collage, a pavimentare piazze e strade, vuole testimoniare appunto il dato linguistico che simboleggia la metropoli contemporanea, metafora di un mondo in continuo divenire.

Ancora una svolta ed un approfondimento nel 2004: prepara per la Galleria L’ Affiche una serie di lavori che ampliano l’ orizzonte di Santosuosso da Milano al mondo; l’ artista dipinge le città che nella seconda metà del secolo hanno lasciato una impronta forte nella storia e nella politica, nella ideologia e nella religione, senza pregiudizi di parte, con il solo intento di ricondurre l’ arte ad un rapporto con la realtà e la storia: si passa così da New York a Benares, dalla Pietra Nera della Mecca alla parata militare sulla Piazza Rossa di Mosca, dal Muro del Pianto a Gerusalemme ad una Baghdad sotto le bombe.

Questo lavoro trova spazio in una mostra dal titolo “Le province e l’ Impero”, con testo critico di Marco Meneguzzo, e continua con la presentazione di una Piazza Rossa e di una Mecca di grandi dimensioni nella edizione 2005 della Fiera d’ Arte di Bologna.

Il “Parlamento” di Francesco Santosuosso             

testo critico di Memo Goffi

Santosuosso, invitato da Sgarbi alla Biennale di Venezia – regione Lombardia 2011, presenta un imponente dittico di metri 3×2 intitolato “PARLAMENTO”. Un gesto di pittura forte, di grande spessore materico, che vuole calarsi nella realtà con un linguaggio realistico e responsabile.

E’ una scelta contemporanea quella di Santosuosso, che mostrandoci come oggetto della rappresentazione il massimo luogo istituzionale del confronto politico italiano, ci comunica un desiderio di politica vera, dando voce, con la pittura, alla domanda sempre più impellente della società civile di oggi .

Riconosciuto da 15 anni tra gli autori piu’ rappresentativi nel contesto dell’arte contemporanea italiana, con una pittura  improntata al realismo sociale, Santosuosso, cinquantenne pittore milanese, racconta in questa nuova composizione i 150 anni dell’Unità d’Italia, la politica, l’architettura, il teatro, lo spettacolo.

Santosuosso, con l’ausilio di una corposa documentazione, ricostruisce una delle aule parlamentari più belle e invidiate al mondo, progetto dell’architetto Basile del 1902 -27.

Ne fa una rappresentazione teatrale, spettacolare e inglobante, consolidando l’architettura con luci, densità e profondità cromatiche. Il pittore diventa regista e ricostruisce meticolosamente tutti i dettagli, dai tendaggi porpora e d’oro, al bassorilievo bronzeo dello scultore Calandra, dipinto in prospettiva con uno spiazzante iperrealismo materico. Caratterizza, inventandoli, centinaia di parlamentari, con pazienza tutta barocca.

Al centro, il presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, unico personaggio riconoscibile, siede solo e il parlamento pare ruotargli intorno enfatizzando il ruolo di protagonista della storia politica

degli ultimi 15 anni , ma al contempo il Presidente sembra sospeso nel giudizio, senza una collocazione istituzionale. La suggestiva scenografia dell’aula evoca una rappresentazione teatrale, lo spettacolo è in scena e si trasforma in una proiezione culturale metaforica, ironica ma educata, tanto che il tricolore, all’interno dell’aula, vicino alla bandiera europea non ci sembra più una icona retorica , ma spicca come simbolo di auspicio d’unità, di forze protese verso un progetto comune.

Anche in questa occasione, Santosuosso ci offre un’immagine destinata a diventare cult, come già il monumentale dipinto della piazza rossa di Mosca, presentato alla fiera di Bologna nel 2004 con la galleria L’Affiche, e come altri suoi soggetti: Gerusalemme, La Mecca, le piattaforme petrolifere, Mao, Tien-a-men, il bombardamento di Bagdad, gli scontri dei Noglobal, il carcere di San Vittore, il Leoncavallo, la torre della RAI, la Milano rossa della stazione centrale e degli extracomunitari , New York…

Noi che crediamo a Roberto Saviano quando dice che la verità e’ una forma di bellezza, riteniamo che Santosuosso faccia una pittura vera, perchè, con un linguaggio chiaro e rappresentativo, ci riporta alla concretezza del pensiero sociale. Santosuosso  ci dice che “raccontare” è l’unico modo oggi per dare un senso alla pittura e recupera con coraggio la “Grande Narrazione”. Senza paura di essere considerato retorico, lo fa usando tutti gli strumenti tecnici possibili avvalendosi anche dell’esperienza maturata durante la sua prima formazione, quando, prima di laurearsi architetto, illustrava le pagine culturali di settimanali e mensili.

Al di là delle polemiche politiche che quest’opera potrà generare, dobbiamo riconoscere che Santosuosso ci consegna un esempio di vera pittura contemporanea, che non nasce e muore nelle accademie, ma da una disciplina rigorosa, frutto di ricerca esistenziale, che diventa strumento di comunicazione col mondo.

Memo Goffi

Comunicato stampa a cura di Sara Cavigioli, 2022

Francesco Santosuosso torna finalmente in Galleria Rubin con la sua seconda esposizione personale. Le opere in mostra illustrano il percorso di approfondimento che l’artista ha svolto nel mondo naturale alla ricerca di immagini sorgive, di situazioni cruciali dove la forza primordiale della natura e quella dello sguardo umano sono allineate, sovrapposte, interscambiabili.

La sovranità della natura è assoluta. Al tempo stesso lo sguardo vigile dell’artista osserva, indaga i nessi e rivela le regole combinatorie della fisica. La natura scambia con l’autore la sua immaginazione: ecco un fiume apocalittico che sprofonda fragorosamente in un orrido precipizio, dolci colline lussureggianti che declinano su un primo piano occupato da un tronco cavo e galleggiante, coralli e rocce sommersi dalle acque che ribaltano la prospettiva dello sguardo, … L’impressione complessiva è che la natura sia per l’autore una sorta di palcoscenico del possibile.

Le misure stesse di alcune opere suggeriscono una dimensione spettacolare della ribalta naturale e del descrivere pittorico. Fanno da contrappeso alle grandi tele, dipinti di dimensioni medio-piccole. In questi lavori l’artista pare offrire all’osservatore la possibilità di custodire nella propria anima ciò che appartiene alla natura. E’ mai possibile questo?

Il termine di riferimento è ancora l’uomo o la natura stessa, bella di per sé con la sua matematica imponenza? Siamo di fronte a una natura che non ha più bisogno della presenza umana, anzi, che rivela in queste opere la sua resilienza, la sua capacità di adattarsi e di resistere agli eventi avversi, che proclama “io esisto” grazie ad un gesto pittorico perentorio ed eloquente.

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